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Gastronomia

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La cucina isolana, è una cucina povera e rustica, espressione di una società e di una cultura di contadini, pescatori e artigiani, le cui ricette sono tramandate di generazione in generazione. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, ha una forte identità terrestre più che marittima. Il mare ha infatti rappresentato nel corso dei secoli una fonte di pericoli, soprattutto per Forio, tormentata dagli sbarchi dei pirati. I suoi prodotti fondamentali sono il coniglio, il maiale, gli ortaggi ed i legumi, le erbe selvatiche, il vino.

Ortaggi e legumi

L’assolata piana di Citara a Forio, oggi una delle spiagge più note, era, insieme al litorale della Chiaia, un’area destinata alla coltivazione ad ortaggi che, accanto a quella della vite, per secoli ha caratterizzato l’economia e l’alimentazione contadina. Dagli orti di Citara provenivano le primizie che venivano caricate sulle barche per essere smerciate altrove. Gli appezzamenti coltivati, detti ‘a siena, erano irrigati con l’acqua termale del bacino di Citara, attinta dal sottosuolo attraverso un sistema chiamato in dialetto ‘u ‘ngign: una ruota fatta girare da asini bendati in modo da riempire i secchi collegati ad essa, successivamente svuotati in apposite vasche dove l’acqua veniva fatta raffreddare.
Verdure come indivia, lattuga, broccoli, rape venivano consumate insieme a fagioli e lenticchie o utilizzate per la preparazione di minestre o zuppe.
Tra le ricette “povere” tipiche della cucina popolare sono le fave arrapate e a m’nesta ‘e paparastigglie. Le fave “arrapate” si preparavano a giugno, il mese successivo alla loro raccolta ed essiccatura. Si facevano bollire in una pentola fave, patate e spighe di granturco fino a quando le patate erano cotte. Terminata la cottura, si scolava l’acqua e il tutto veniva sistemato su un grande piatto. Le fave erano “arrapate” in quanto ancora un po’ crude e grinzose.‘E paparastigglie è una specie di lattuga che cresceva spontanea lungo i sentieri della Scannella: le famiglie povere la utilizzavano insieme ai fagioli per preparare una minestra.

Piante selvatiche

Anche le piante selvatiche non coltivate, che crescono spontaneamente nei boschi, nei campi o nelle rupi marine (ad esempio finocchi, scarole, broccoli e asparagi selvatici, borragine, cicoria, tarassaco), venivano utilizzate in ambito popolare, e lo sono tuttora, per la preparazione di zuppe ed insalate.
I contadini, i pescatori ed i pastori tramandavano le conoscenze sulle proprietà di queste piante acquisite vivendo a diretto contatto con la natura. Spesso, soprattutto in periodo di guerra o di particolari ristrettezze, le piante, le erbe ed i frutti selvatici rappresentavano l’unica risorsa alimentare disponibile. Una tipica minestra di verdure isolana era la minestra salvagioia, nella quale rientravano numerose piante spontanee, tra le quali il tarassaco, il papavero, la borragine, il cardo. Le casalinghe, se il sale scarseggiava, si arrangiavano a cucinare con l’acqua di mare.
Anche le piante aromatiche selvatiche (come ortica, eucalipto, origano, rosmarino, basilico, alloro, salvia), presenti in abbondanza sul territorio isolano lungo le coste, nei luoghi soleggiati e sassosi, nelle radure o nel sottobosco, venivano e vengono tuttora utilizzate in cucina non soltanto per aromatizzare ed insaporire le pietanze, ma anche a scopo curativo, trattandosi per la maggior parte di piante medicinali dotate di proprietà antisettiche, digestive, diuretiche, espettoranti, lassative, ben note ai contadini.
Con molte piante aromatiche sulla base di ricette tradizionali tramandate in famiglia si preparano tuttora in casa tisane, infusi e liquori per la cura di disturbi leggeri quali insonnia, tosse, mal di stomaco. Tra i liquori più diffusi è il rucolino, preparato con la ruchetta, pianta erbacea dalle proprietà digestive. L’assenzio veniva utilizzato in passato sull’isola per la preparazione di alcuni vini medicinali.
In alcuni casi i nomi vernacolari rivelano l’uso terapeutico della pianta, come la santoreggia, chiamata in dialetto locale ereva pa’ tosse (erba per la tosse) perché utilizzata per preparare decotti per la cura della tosse cronica; le altre due specie di santoreggia presenti a Ischia, la hortensis e la greca, sono adoperate per cucinare il coniglio all’ischitana.
Esistevano credenze e rituali intorno alle erbe, alle loro proprietà nutritive e curative e alla loro raccolta: l’influsso benefico della luna, la protezione di santi cui venivano offerte le primizie, come le uve per S. Vito, S. Isidoro, S. Restituta, le noci per S. Maria, il granturco per S. Anna.
Non mancano nell’alimentazione tradizionale altre erbe e frutti che si raccolgono nei boschi isolani: funghi, more, capperi, pinoli, castagne.

Carni: coniglio e maiale

La carne era un lusso che la maggior parte delle famiglie si poteva concedere raramente ed era quindi consumata per lo più in occasioni particolari, quali feste ed eventi rituali.
Il coniglio rappresenta una delle principali voci dell’allevamento isolano. L’allevamento di conigli è diffuso sull’intera isola da secoli. Fino al secolo scorso quasi tutte le famiglie lo praticavano, in quanto il coniglio costituiva un alimento capace di fornire proteine a basso costo. Era un prodotto talmente importante che, come testimonia D’Ascia nella sua storia dell’isola, quando il viceré don Pedro di Toledo volle imporre il dazio sui conigli, gli isolani si opposero e al tempo di Masaniello si ribellarono.
il metodo tradizionale di allevamento è il fosso dei conigli, un fosso scavato nel terreno tufaceo, profondo circa due metri e largo quanto una grossa botte, dove i conigli crescono semiliberi, scavano le loro tane e si riproducono. Gli animali vengono alimentati con erbe locali gettate nel fosso, come il sonco, utilizzato come foraggio anche per i maiali. Con questo sistema la carne diventa particolarmente gustosa.
Il coniglio all’ischitana è il piatto isolano per eccellenza. Il coniglio, tagliato in pezzi, viene fatto dorare in una casseruola in olio bollente e poi messo da parte. Nello stesso olio si fanno soffriggere l’aglio ed il peperoncino, si rimette il coniglio e si aggiunge un bicchiere di vino bianco; evaporato il vino, si aggiungono i pomodorini locali e si fa cuocere il tutto a fuoco lento per circa due ore. Numerose sono le varianti di questa ricetta, tanto che ogni comune isolano e persino ogni famiglia aggiunge o toglie qualche ingrediente. Il coniglio isolano viene cucinato anche alla cacciatora, arrostito e insaporito con rosmarino. I bucatini conditi con il sugo del coniglio sono il piatto festivo tradizionale.
L’altro tipo di carne più diffuso è quella di maiale. Piatti tipici sono le costolette di maiale condite con peperoni in aceto e le salsicce con friarielli. L’allevamento del maiale, insieme a quello del coniglio, rappresentava soprattutto in passato una voce importante dell’economia contadina isolana. Dall’animale si ricavano infatti numerosi alimenti: strutto, insaccati (pancetta, prosciutto, sopressata, capicollo, salsicce), cigoli. Non si butta nulla: anche le interiora (polmone, cuore, milza) vengono consumate in soffritti piccanti, il fegato è cucinato in padella insaporito con foglie di alloro, e persino il sangue rappreso del maiale, unito a zucchero, cedro, cacao e latte, viene utilizzato per preparare un dolce, il sanguinaccio; con i peli si facevano le setole utilizzate dai calzolai.
L’uccisione del maiale era una sorta di rito che si svolgeva fra dicembre e gennaio, mese in cui cade la festa di S. Antonio Abate, santo protettore del maiale e di altri animali; in questa occasione vengono ancora oggi accesi falò sui quali si arrostisce la carne di maiale. L’uomo addetto all’uccisione del maiale, lo squartaporco, con l’aiuto di quattro o più uomini che tenevano fermo l’animale disteso su un tavolo, squarciava il maiale con un grosso coltello partendo dalla gola. Il sangue veniva raccolto in un tino; l’animale, ormai senza vita, era poi bagnato con acqua bollente, veniva raschiato e privato dei peli con un coltello affilato. Appeso a testa in giù, gli si apriva il ventre per togliere le interiora e lo si squartava.
Data la difficoltà di conservare l’abbondante carne ricavata dalla macellazione, a volte si mettevano le costolette di maiale sotto vino, oppure i vari prodotti (capocollo, salsicce, sopressata, ventresca) venivano conservati nei cellai appesi al soffitto perché non fossero mangiati dai topi. Le donne confezionavano la carne in pacchi, il cosiddetto “segno” (‘u sign’), da inviare in dono a parenti e vicini.

Vino

La coltivazione della vite sull’isola, favorita dal terreno vulcanico, vanta origini greche ed è stata fino al secolo scorso una delle maggiori risorse dell’economia locale, ormai soppiantata dal turismo. Tuttavia ancora oggi aziende vinicole producono vini eccellenti, prevalentemente bianchi, ottimi per accompagnare il pesce.

Pesce

Il pesce non occupa un posto centrale nella tradizione gastronomica ischitana, il cui piatto tipico, come già indicato, è il coniglio. I piatti a base di pesce sono infatti quelli della tradizione napoletana. Il mare isolano offre comunque in abbondanza varietà di pesci che sono cucinati alla griglia, all’ “acqua pazza”, lessi, marinati o in zuppe e in fritture miste. Oltre al pesce azzurro (alici, sardine, sgombri, merluzzi), nella cucina locale non mancano triglie, calamari, polpi, seppie, saraghi, orate, scorfani, crostacei e frutti di mare.

Panetteria

I prodotti della panetteria non si distinguono da quelli napoletani. Molto diffuse nella cucina tradizionale sono le pizze, da quella rustica farcita con ricotta, mozzarella e insaccati a quella di scarole e quella con i cicenielli, minuscoli pesci uniti all’impasto con origano e aglio. Tra le specialità della panetteria figurano anche il tortano ,un rustico ripieno di salumi e formaggi; i taralli impepati, sorta di ciambelle fatte con farina, strutto, mandorle, sale e pepe nero; le freselle, fette di pane arrostite che vengono intinte nel brodo di cozze o di lumache, usate nelle zuppe per ricoprire il fondo del piatto e, bagnate con acqua e aceto, come base per la caponata, tipico piatto meridionale fatto con pomodoro condito con sale, olio, aglio, origano e basilico.
In passato la pizza con la scarola, originaria proprio di Forio, sostituiva il dolce delle feste e ancora oggi è un piatto tipico della cucina isolana. Per la sua preparazione si usava un tegame di rame o di alluminio chiamato in dialetto locale sartania. Si preparano due sfoglie di pasta per pizza: una viene usata per foderare il tegame, sopra di essa si pone un ripieno fatto di scarola cotta, uva passa, e, a scelta, noci, olive, capperi, acciughe, il tutto condito con vino cotto per conferire il sapore del dolce e coperto dall’altra sfoglia di pasta.
Nelle famiglie povere, che non avevano il forno e farina sufficiente per fare il pane, le donne preparavano gli scagliozzi, impasti di farina di grano dalla forma di pani fatti cuocere lentamente a contatto con i mattoni del focolare e ricoperti da cenere calda.

Dolci

Il dolce era riservato ai giorni festivi: tra questi il sanguinaccio, a base di sangue di maiale rappreso, i dolci di pasta, come il casatiello, a base di farina, zucchero, strutto, uova, lievito di birra e sale, e il migliaccio, fatto con pasta (maccheroni, capellini o riso), uova, zucchero, vanillina, latte e liquore.
Nell’uso quotidiano i dolci erano sostituiti dai fichi cotti al sole e imbevuti nel miele, dalle noci e nocciole infornate o dai biscotti impastati col mosto o vino cotto. I fichi secchi rappresentavano un prodotto importante nell’alimentazione contadina: raccolti d’estate, venivano fatti seccare al sole e conservati per l’inverno; erano la merenda per i ragazzi e per gli uomini che lavoravano nei campi.

Frutta

Meno abbondante rispetto agli ortaggi, la frutta foriana, come quella isolana in genere, è rappresentata prevalentemente da agrumi (aranci, mandarini, limoni), con i quali si producono sia in ambito domestico che a livello industriale liquori, quale il rinomato limoncello; diffusi sono anche i meli e i fichi. Fichi secchi, molto utilizzati nell’Ottocento, noci e nocciole, oltre a sostituire i dolci, riservati solo agli eventi speciali, venivano inviati ai parenti emigrati in America desiderosi di continuare le loro usanze.

Piatti festivi

Alcuni piatti, tipici della tradizione gastronomica meridionale, sono legati a feste religiose: a Natale il pranzo o la cena della vigilia erano a base di pesce, ruongo o murena (con il sugo della murena si condiva anche la pasta); sulla tavola non mancavano la pizza di scarola, i roccocò, i casatielli, i mustacciuoli, gli struffoli e le nocciole che venivano distribuite ai bambini alla fine del pasto per i loro giochi; tipici del periodo pasquale sono le zeppole di san Giuseppe, la lasagna, la pastiera a base di grano, i dolci di ricotta, il migliaccio.
In occasione di matrimoni e battesimi, talvolta celebrati in casa, c’era l’usanza di preparare liquori a base di spirito ed essenze, che venivano offerti insieme alle paste agli invitati seduti su sedie disposte in cerchio.
La parmigiana di melanzane ad Ischia è associata alla festa di S. Anna (26 luglio) perché in quella occasione i pescatori si recavano nella piccola cappella dedicata alla santa a Ischia portando in dono questo piatto.

Vendita e scambio di prodotti alimentari

I prodotti della terra, vino, ortaggi, verdure, frutta, erbe aromatiche, avevano nel mercato paesano il principale luogo di vendita: era un caleidoscopio di profumi, di colori, di figure, di voci. La merce veniva trasportata dai contadini a dorso di asini o a mano, sistemata in cesti, canestri o cofani, portati sotto braccio o sulla testa (le donne erano particolarmente abili nel tenerli in perfetto equilibrio anche per lunghi tragitti poggiati su un panno arrotolato in forma di cerchio sul capo, detto tortiello) e veniva esposta su stuoie di canne o su panni.
Suggestiva è questa descrizione del mercatino di Panza:
Di buon mattino vedevi avviarsi al mercatino una anziana donna, con un cesto sotto il braccio e uno in testa. Il luogo del mercato era una strada in leggera salita; ai due lati, ampi marciapiedi. Quando l’anziana donna vi giungeva, gli spazi del mercato erano già stati occupati dai venditori.
Il Citarese aveva già scaricato dall’asino una “sporta” di melanzane, un cesto di zucchine ed un canestro di pomodori. Sul carretto del Monteronese già erano disposti, in bella vista, fagiolini, broccoli e torsi di rape. Un grosso mucchio di carciofi del Pantano era stato già adagiato su una stuoia di canne. I carciofi erano legati in fasci; quattro per ogni fascio; tre più piccoli ai lati ed uno, bello e grosso, al centro. Tutte mammarelle. Il Panzese era già seduto in mezzo alla sua mercanzia: bottiglie e fiaschi di vino, patate e cipolle novelle. Una contadina dal volto rubicondo, che non ancora s’era tolta la “scolla” che le copriva i capelli, deponeva per terra, distesi su di un panno di scorzalabra, un fascetto di cicoria, una manciata di fior di zucchini, un grosso fascio di prezzemolo, pochi limoni, qualche albicocca, appena indorata, e una pianta fresca di peperoni forti. Stava arrivando dal Cotto l’uomo dal collo taurino che reggeva, in testa, una grossa “cofanella”, in perfetto equilibrio, senza l’aiuto delle mani. Lo aiutavano a deporla sul marciapiede, mentre lui, ancora ritto per lo sforzo, si toglieva dal capo il “tortiello” (panno avvolto intorno a se stesso che gli era servito per attutire il peso). Toglieva dalla cesta le foglie, che la coprivano, e vedevi spuntare grosse e succose ciliegie rosse. Intanto arrivava anche l’anziana donna, con un cesto sotto il braccio ed uno in testa, e, dopo essersi cercato un posticino, si dava da fare per esporre i suoi prodotti. Si sedeva, e dai canestri tirava fuori grossi fasci di prezzemolo verde, steli di basilico, peperoni secchi, spicchi di aglio già sgusciati, fascetti di origano, rosmarino e sacchetti di “spigandossa” (lavanda). Dai cesti vi usciva un po’ di tutto; più vi affondava la mano, più cose uscivano. Sembravano, i cesti, il cappello del prestigiatore, da cui si tira fuori ogni cosa. La strada in un batter d’occhio si animava. La gente la percorreva; vi saliva e vi ridiscendeva, guardava e rimirava tutta quell’abbondanza. C’era chi comprava e chi si attardava a mangiare con gli occhi tutta quella grazia di Dio.
(Fonte: Polito Agostino, Com’era il mio paese, Forio, Centro di Ricerche Storiche D’Ambra, 1991, pp. 65-66)

Oltre alla vendita vera e propria, la tradizione popolare aveva elaborato modalità di scambio private, finalizzate a esprimere solidarietà e a garantire aiuto reciproco all’interno di una comunità piccola e chiusa, di un’economia povera in cui il denaro circolava raramente.
Lo scambio talvolta assumeva la forma di un vero e proprio dono simbolico, volto a confermare e a rinsaldare la coesione della collettività: è il caso di ‘u sign’, la carne di maiale offerta a parenti e vicini, delle caneste inviate dagli amici al proprietario di una nuova casa in occasione della vattuta ‘e l’ásteco, della distribuzione gratuita di cibo e bevande in occasione della festa di S. Antonio Abate.
Talvolta al cibo donato l’immaginario popolare attribuiva un valore magico, sacrale, il potere di esorcizzare la morte, come testimonia la rassa (lardo, gocce di olio, semi di grano, sale, verdura, legumi) offerta dagli abitanti del casato ai parenti di un malato terminale per una sorta di bagno lustrale e salvifico, ultimo tentativo di guarigione. Fave, pane, fichi secchi erano raccolti presso le case nel mese di novembre dallo spiritiello come offerte per “rinfrescare” le anime dei morti.
Il cala – cala era invece una forma di baratto, uno scambio tra prodotto della pesca e prodotto dell’agricoltura. I pescatori portavano il pesce fresco tra le case dei contadini in un contenitore chiamato “spasella” e lo cedevano in cambio di vino, pane, fichi secchi, frutta e verdura, che venivano calati (da qui secondo alcuni la denominazione; secondo un'altra interpretazione il termine deriverebbe dal greco calèo = chiamare) nel paniere.
Nell’ambito di un’economia contadina il cibo veniva inoltre spesso utilizzato in sostituzione del denaro per il pagamento di salariati agricoli, muratori ed artigiani. Conigli, capponi, vino e frutta per contratto venivano donati ai proprietari terrieri da coloni e fittavoli in occasione delle festività natalizie e pasquali.
Anche le prestazioni dei narratori orali, invitati a raccontare fiabe e storie romanzate durante gli incontri serali nelle case, nelle cantine o nelle botteghe, venivano ricompensate con una cena o una bottiglia di vino.

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